CARPARO

C’è un litotipo che spesso, per azzardo indicibile, viene associato, se non proprio addirittura confuso, con la pietra lecce. Parliamo del carparo, pietra calcarenitica molto diffusa nelle zone del sud Salento soprattutto, e derivante dalla cementazione di sedimenti di roccia calcarea in ambiente marino per lo più.

Gergalmente detta “tufo“, la pietra  ha la capacità di assumere diversi aspetti all’esterno, che si tramutano in una differente percezione al tatto e ovviamente alla vista stessa, in base alla dimensione della grana che la caratterizza, alla quantità di calcite, il legante naturale che la costituisce, e la porosità finale.

Un materiale molto utilizzato nell’edilizia salentina, il carparo, dalla consistenza tenace e lavorabile solo con scalpello e ascia, tanto da essere molto ricercata soprattutto per la lavorazione di oggettistica.

La sua resistenza, comunque, la rende un rivestimento perfetto soprattutto delle facciate esterne degli edifici, maggiormente per quelli esposti a intemperie e all’azione corrosiva della salsedine, se di fronte al mare. Una volta rivestiti con questa particolare pietra, dalla colorazione ambrata e la consistenza granulosa, sarà possibile anche non intonacare, lasciando a vista il tutto con un conseguente effetto scenografico.

Una qualità, questa, che rende il carparo ancora più prezioso quando, proprio per effetto dei venti e dell’umidità, tende a ricoprirsi di licheni ed efflorescenze che col passare del tempo tendono a far virare il colore originale, caldo, verso tonalità grigiastre che danno agli edifici un aspetto anticato unico. Un noto esempio di architettura salentina che si è avvalsa del carparo come rivestimento è la chiesa madre di Alessano, edificata nel Settecento in sostituzione dell’antica cattedrale romanica costruita tra il 1150 e il 1200.

Il carparo con caratteristiche più pregiate viene estratto principalmente nelle cave Mater Gratiae, situate  tra Alezio e Gallipoli, ma anche in quelle ugentine, che offrono la possibilità di estrarre complessi di qualità, destinati all’architettura ma anche alla lavorazione artigianale da parte di artisti locali.

Proprio per la sua immensa varietà di struttura, dovuta appunto alle granulometrie e alle diverse concentrazioni cromatiche, il carparo ha la bellezza di non essere mai omogeneo e molto assorbente al tempo stesso, con risultati unici di volta in volta.

Tuttavia, cerca di emulare risultati e decori della pietra leccese, con effetti finali molto diversi. Colpa della sua grana, che così grossolana spesso non offre la possibilità di una lavorazione minuziosa del dettaglio, bensì più rustica e d’insieme.

In tutto ciò il carparo in passato veniva utilizzato soprattutto per la costruzione: considerando il suo alto grado di modellabilità, venne utilizzato soprattutto per costruzioni che ancora oggi rendono giustizia e testimonianza di un’arte edificatoria che col tempo è andata man mano scemando. Parliamo delle liame, costruzioni diffuse nelle campagne salentine alla stessa stregua di trulli, furneddhri e pajare, dalle caratteristiche volte a botte, nate principalmente come piccoli ricoveri e ripari dalle intemperie per i contadini dediti alla coltivazione nei campi.

Luoghi modesti, semplici, ma realizzati con una maestrìa ormai quasi estinta, con piante rettangolari o quadrangolari, volte a botte, e muri di pietre di risulta (muretti a secco). Le volte venivano poi rivestite con carparo e pietre tufacee, le stesse a cui oggi nei restauri di queste antiche strutture viene dato lustro con la finalità di adibire il tutto a deliziose case di campagna.

L’antica tradizione di costruire le volte leccesi, alte, maestose e soprattutto, resistenti, viene proprio da qui, da questi primi passi nell’architettura, sino al risultato delle volte leccesi. Volte a botte e volte a spigolo, conosciute più con il nome di volte a stella, ancora di datazione incerta, nonostante si pensi che collocarle tra il barocco possa rendere effettiva giustizia.

About the Author